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Vecchio 04-07-2009, 10.46.58
Bnx
 
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Predefinito I mille colori del Chiapas

Visto che in trhead si parlava di autobus, Messico e Chiapas, ripropongo con
l'occasione un vecchio racconto datato 1996, che forse, però, potrà ancora
essere utile a qualcuno.

I mille colori del Chiapas

Dalle grida di stupore capiamo che siamo giunti alla nostra meta. Qualcuno,
per sua fortuna, è riuscito a scorgere il Canyon dall'alto e, dalle sue
inequivocabili esclamazioni, intuiamo che abbia goduto per qualche istante
di una visuale davvero spettacolare. In breve atterriamo sulla pista di
Tuxla Gutierrez, capitale dello stato del Chiapas, dove abbiamo però deciso
di non fermarci per la notte, optando invece di proseguire alla volta di San
Cristobal de Las Casas, situata a circa ottantacinque chilometri di
distanza, ma ubicata abbastanza più in alto rispetto ai 542 metri di
altitudine di Tuxla. Poco prima dell'uscita dal piccolo aeroporto, troviamo
un banco turistico, dove una graziosa ragazza elargisce con un sorriso
ammaliante, informazioni, ed opuscoli illustrati sulle tante bellezze di
questo stato messicano. Davanti al banco facciamo la conoscenza di una
coppia, lei italiana, lui spagnolo, ma che, come scopriremo in seguito,
vivono in Belgio. Sono diretti anch'essi a San Cristobal, ma ci chiedono se
vogliamo unirci a loro per effettuare prima un giro sul Canyon, e la
proposta ci alletta decisamente, poiché in questo modo avremo la possibilità
di dividere le spese. Prendiamo quindi assieme un taxi, impiegando una buona
mezz'ora per coprire i pochi chilometri che ci dividono dal paesino di
Chiapa de Corzo, complice anche un posto di blocco dell'esercito, a cui
sembriamo ormai esserci abituati nel corso di questo viaggio, ma che di
fatto è il primo che incontriamo qui in Chiapas. Veniamo lasciati sulla
piazza principale del paese, dalla quale, facendo pochi passi, raggiungiamo
in breve un albergo, l'unico di Chiapa de Corzo a quanto ci risulta, dove
proviamo a chiedere se possono custodire i nostri bagagli per tre, quattro
ore, giusto il tempo di effettuare l'escursione lungo il fiume Grijlva.
Accettano, ma non gratuitamente, siamo turisti. e ci alleggeriamo quindi di
una manciata di pesos, comunque una cifra sostanzialmente irrilevante per i
nostri standard. Senza la zavorra dei pesanti zaini, passeggiamo quindi
tranquillamente per le stradine polverose di questo paesino, approfittando
tra l'altro della presenza di una banca e del suo sportello bancomat, per
prelevare del denaro contante. Certo, Chiapa de Corzo non presenta i canoni
estetici di altri paesini e cittadine visitate finora in Messico, ma le sue
basse costruzioni, per la maggior parte dipinte di rosa, le sue stradine
desolate e la sua gente, soprattutto indios, le conferiscono un certo
fascino, intriso d'autenticità. Ammiriamo dall'esterno la semplice
architettura che contraddistingue la cattedrale di Santo Domingo, e facciamo
un giretto attorno ai negozietti che la circondano, provando incuriositi una
tazza di pozole, densa bevanda scurissima composta da cannella, cioccolato e
granturco, che non riscontra decisamente i nostri gusti, a differenza dei
molti altri avventori, che invece sembrano indubbiamente gradirla. In breve
raggiungiamo l'imbarcadero, dove salpiamo assieme ad altri viaggiatori su
una lancia a motore, navigando velocemente lungo le verdognole e torbide
acque del fiume Grijlva. Le visuali di piccole e spoglie capanne ubicate
sulle anse, si alternano a scene di altri tempi, in cui le donne fanno il
bucato lungo il fiume, ed i bambini giocano con semplicità sulle sponde di
queste limacciose acque. Ci addentriamo rapidamente in quello che alcuni
fortunati passeggeri hanno visto poche ora prima dall'alto, ovvero il Canyon
del Sumidero, il quale si snoda per una quindicina di chilometri attorno a
delle gigantesche pareti quasi verticali, che discendono oltre i mille metri
di profondità. Un'autentica meraviglia della natura, è il caso di dirlo. Il
cielo intanto si è coperto di nuvole e la temperatura è scesa notevolmente,
tanto da indurci ad indossare i nostri giubbotti e speriamo proprio che non
piova, altrimenti faremo una doccia gratuita a bordo di questa lancia
scoperta. In alcuni punti il fiume è completamente ricoperto di vegetazione,
ed il pensiero corre subito agli alligatori, che secondo le stime ancora
dovrebbero popolare le sue acque, ma che per nostra sfortuna non vedremo, a
differenza invece di numerose colonie di scimmie, che sembrano divertirsi a
richiamare la nostra attenzione, tanto da indurre il barcaiolo ad arrestare
la propria marcia, permettendoci di ammirarle nelle loro divertenti
esibizioni. Il panorama è mutevole, grazie alla diversa altezza e
conformazione delle pareti rocciose dalle quali siamo circondati, ed all'alternarsi
dei diversi tipi di vegetazione, dove di tanto in tanto scendono con fragore
alcune piccole cascate. Tutt'intorno regna un silenzio irreale, udibile
ancor meglio quando ci fermiamo alcuni minuti in delle immense grotte
presenti lungo i bordi, spegnendo il motore. Solo le urla in lontananza di
qualche scimmia, o l'eco di alcuni rapaci, sembrano rompere la magia di
questi momenti fatati, in cui la natura assume il ruolo di protagonista
assoluta. La nostra corsa d'andata, durata circa un paio di ore, termina
poco prima della diga di Chicoasen, completata nel 1981, la quale produce
immense quantità di elettricità, ed è una delle più grandi del Messico.
Nonostante questo, moltissimi indigeni del Chiapas (stato messicano la cui
popolazione è composta per un buon 80% da indios discendenti dai Maya) non
dispongono della luce nelle proprie abitazioni, così come l'acqua potabile o
i servizi igienici. Purtroppo, dopo l'avvento degli spagnoli, il Chiapas ha
sempre vissuto ai margini dello sviluppo messicano, tanto che, ancor oggi,
nonostante le ingenti ricchezze di cui dispone, tra cui, vale la pena di
ricordare alcuni giacimenti petroliferi, è uno degli stati più poveri del
paese, dove analfabetismo, mortalità infantili, violenze, malattie dovute
alle scarse condizioni igieniche, alcolismo, sono piaghe assai diffuse tra
la popolazione, nella quale l'1% detiene quasi la metà della proprietà del
territorio, percentuale purtroppo destinata ad aumentare, a causa del
confiscamento sistematico delle terre da parte dei grandi latifondisti, ai
danni delle sempre più povere comunità locali, costitute come dicevo da
discendenti Maya, i quali parlano tra l'altro diversi dialetti locali, a
seconda del proprio ceppo di appartenenza. Da questo contesto, dopo secoli
di ingiustizie sociali e sfruttamenti vari, due anni fa, nel 1994 ha avuto
origine la guerriglia zapatista, la quale balzò agli onori delle cronache
proprio per l'occupazione di San Cristobal de Las Casas da parte dell'Ezln
(Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) guidato dal subcomandate
Marcos, il condottiero mascherato da un passamontagna, il quale incarna per
molti un nuovo Che Guevara. Gli zapatisti, i quali hanno trovato un rifugio
sicuro nell'inaccessibile selva lacandona, portano avanti la loro battaglia
scegliendo oltre alla lotta armata, anche la via della propaganda, provando
a far conoscere al mondo intero il dramma degli indios del Chiapas e
tentando un dialogo con il governo messicano, al fine di indurre il paese a
riconoscere agli emarginati di questa parte di mondo un minimo di dignità
umana, grazie alla ridistribuzione delle terre tra la popolazione, alla
costruzione di strutture sanitarie, ad una campagna d'alfabetizzazione, in
sostanza tutte cose fattibili per un paese civile, che si affaccia alle
soglie del terzo millennio. In verità non so quanto possa essere utopica la
guerriglia zapatista, ma viaggiando in queste settimane attraverso il
Messico, mi sono reso conto che quella dell' Ezln non è l'unica rivolta
presente all'interno del paese, malgrado sia la sola che faccia notizia da
noi, segno che probabilmente, la strada propagandistica intrapresa dagli
zapatisti sortisce un certo effetto.

In circa un'ora di navigazione copriamo a ritroso il nostro itinerario sul
Grijlva, approdando nuovamente all'imbarcadero di Chiapa de Corzo. Si
uniscono a noi due simpatici tedeschi, i quali hanno depositato loro volta i
bagagli nell'albergo, occupandone però una camera per la notte. Vorrebbero
venire con noi a San Cristobal, tanto che io ed il ragazzo spagnolo ci
mettiamo alla ricerca di un mezzo che possa ospitarci tutti e sei, spargendo
la voce tra alcuni abitanti del posto, ma la proprietaria dell'hotel non si
lascia sfuggire l'occasione di prendere con il minimo sforzo il deposito da
loro lasciato, dicendogli che non poteva assolutamente restituirglielo,
probabilmente perchè l'albergo è completamente privo di ospiti e
difficilmente a quest'ora busseranno alle sue porte altri clienti. Così, i
due ragazzi ci salutano rammaricandosi di non aver avuto la nostra stessa
idea, e trascorreranno la notte a Chiapa de Corzo. Nel frattempo la voce che
abbiamo sparso ha evidentemente avuto buon esito, e si presenta a noi un
giovane con il suo minivan, pronto ad accompagnarci fino a San Cristobal.
Malgrado non sia un regolare taxista, ci sembra un bravo ragazzo, del quale
istintivamente ci fidiamo. Contrattiamo quindi il costo della corsa, già
relativamente basso, e mentre sta imbrunendo, ci dirigiamo alla volta di
questa cittadina distante una settantina di chilometri, procedendo in salita
lungo tortuosi e ripetuti tornanti. Copriamo in circa un paio d'ore l'intero
percorso, da molti descritto come spettacolare, ma il buio non ci fa
scorgere altro che il bagliore isolato di qualche fuoco acceso nell'oscurità
delle campagne circostanti. Nei dintorni della piazza principale di San
Cristobal salutiamo i nostri amici, simpatici ed ottimi compagni di viaggio
di questa giornata e malgrado anche loro sosteranno nella cittadina qualche
giorno, non li rivedremo mai più. Loro hanno l'hotel prenotato e proseguono
quindi con il ragazzo di Chiapa fino allo stesso, mentre noi ci mettiamo
alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte. Fa freddo, decisamente
freddo, e la pioggerellina fine che sui nostri key-way rimbalza docilmente,
sembra invece pungere maliziosamente i nostri volti. Stentiamo non poco a
trovare una camera, trascinando il peso dei nostri zaini sotto la pioggia
per le stradine deserte, ed i vicoli bui di San Cristobal.

Il giorno seguente, di buon mattino siamo già in piedi. Usciamo subito dal
comodo ed economico hotel trovato a fatica la sera precedente, immettendoci
nelle stradine lastricate di San Cristobal. L'aria frizzante ci ricorda che
siamo ad oltre 2260 metri d'altitudine, mentre le stupende e basse
costruzioni color pastello, le inferriate in ferro battuto finemente
lavorate, ed i mille tetti coperti da tegole rosse, riportano alla nostra
mente Antigua, cittadina guatemalteca che tanto ci era piaciuta qualche mese
fa. Ci infiliamo dentro una di queste case, la cui insegna esterna indica la
presenza di un ristorante. Già, perché la maggior parte di queste
costruzioni presentano al loro interno dei veri e propri gioielli nascosti,
costituiti da degli spettacolari patii in stile coloniale, ornati da
magnifiche piante, ed arricchiti da splendide fontane d'epoca. Ed è appunto
in uno di questi straordinari cortili, che consumiamo la nostra prima
colazione chiapateca. Malgrado nel Chiapas sia in atto una guerriglia,
notiamo da subito la forte concentrazione turistica, ed il proliferare di
negozietti creati ad arte. Ma la città resta comunque un incanto, come quasi
tutte le città coloniali spagnole del resto, con il classico zòcalo
centrale, in questo caso denominato Plaza de 31 de Marzo, e l'onnipresente
cattedrale, qui eretta nel 1528, successivamente distrutta e ricostruita
negli ultimi anni del 1600, dove entriamo per un istante, ammirando lo
splendido dipinto raffigurante la ******* dei Dolori, la pala d'altare e
relativo pulpito in stile barocco, entrambi finemente incrostati d'oro. Sul
lato est della medesima piazza, fa bella mostra di se la casa in stile
coloniale di Diego de Mazariegos, condottiero spagnolo che nel 1524
sconfisse gli indios Chiapas e che fondò nel 1528 la città, chiamandola in
origine Villareal de Chiapas de los Espanoles, nome che in seguito fu
cambiato in omaggio agli sforzi compiuti dal frate domenicano
(successivamente eletto vescovo) Bartolomè de Las Casas, a favore degli
indios locali, torturati e massacrati ripetutamente dai conquistadores.

Della serie la spada e la croce.

Continuando a passeggiare sotto un cielo quest'oggi incredibilmente azzurro,
ed ammaliati da queste meraviglie architettoniche, giungiamo sino a quella
che è secondo me un vero e proprio capolavoro qui a San Cristobal, ovvero la
chiesa di Santo Domingo, con la sua splendida facciata barocca dipinta in un
rosa tenue, che presenta un sublime intreccio di bassorilievi, statue
raffiguranti santi ed angeli, colonne scanalate, mentre all'interno restiamo
estasiati dal bel pulpito elegantemente scolpito. Ma la cosa che più ci
colpisce gironzolando tra le strade della cittadina, è senza dubbio la
gente. Anche all'esterno della stessa chiesa di Santo Domingo ci sono
diverse donne vestite nei loro caratteristici costumi, intente a vendere la
propria mercanzia, i loro colorati tessuti. San Cristobal è tutto un
brulicare di queste indie, appartenenti ai diversi ceppi come i Chamulan, i
Tzotziles, i Tojolabal, i Tzeltales ed altri ancora, provenienti dai vari
villaggi circostanti. Assieme a loro ci sono ovviamente una marea di
bambini, che ci seguono dappertutto con l'intento di vederci dei
braccialetti di cotone colorati. La mercanzia esposta è varia, e destinata
soprattutto ai turisti, inoltre ci risulta anche che molti dei tessuti in
vendita provengano in realtà dal vicino Guatemala, dove il costo della vita
è ancor più basso. Ma il colpo d'occhio è magnifico, un'autentica esplosione
di colori, tra l'altro ancor più marcata nel vicino mercato municipale, che
in breve raggiungiamo. Qui il posto è più autentico, come si evince
facilmente dalla merce venduta, che va dalla coloratissima frutta alla
carne, dagli utensili casalinghi a vari ortaggi, dagli animali alle erbe
medicinali, fino alle varie bancarelle che cucinano direttamente il cibo,
diffondendo nell'aria forti odori, più o meno piacevoli per le nostre
narici. Girovaghiamo per un po' in questo tripudio di colori, odori
pungenti, suoni, urla, conversazioni più o meno comprensibili, fino a quando
non torniamo in strada, dove fermiamo un taxi, contrattando un giro nei due
vicini villaggi di San Juan Chamula e Zinacantan. Troviamo rapidamente un
accordo, ed usciamo dalla città, dirigendoci alla volta del primo dei due,
distante grosso modo una decina di chilometri, che percorriamo in breve.
Improvvisamente sembriamo letteralmente proiettati fuori dal tempo, ed in un
altro mondo, ma l'impatto non è dei migliori. La piccola piazza pullula di
ragazzini scalzi e mal vestiti che ci chiedono dei pesos mettendosi in posa
per delle foto, o che cercano con insistenza di vendere alcuni oggetti,
diventando a tratti anche aggressivi. Inoltre lo spettacolo di molti uomini
palesemente ubriachi, non è dei migliori. Giacciono rassegnati, con lo
sguardo sottomesso perso nel vuoto e con l'immancabile bottiglia tra le
mani. Qui ci si rende conto ancor più del dramma degli indios, della loro
emarginazione sociale, dei mille problemi che ha questa splendida terra.
Questi uomini vivono con triste rassegnazione i loro drammi, annegando e
finendo le loro misere vite nell'alcol. Nei loro caratteristici vestiti
bianchi, e con i cappelloni e stivali in stile cow-boy, stazionano senza
tempo sulla piccola piazzetta di San Juan Chamula, nella quale sono invece
assenti del tutto o quasi le donne, molte delle quali sono probabilmente le
stesse che abbiamo incontrato nelle strade di San Cristobal. Ci rechiamo al
municipio, al fine di ottenere il permesso di visitare la chiesa locale,
acquistandolo per pochi pesos. Tra le tante bambine che ci chiedono l'elemosina,
ci accingiamo quindi ad entrare in questa chiesa dalla facciata in stucco
bianco, in cui sono presenti un piccolo balcone sul lato superiore, ed un
portone ad arco, entrambi decorati di verde e blu, ed arricchiti da altri
colori. La chiesa non è più da anni un luogo di culto cattolico, ma vi
vengono praticati dei riti cattolici con una chiara reinterpretazione
indigena. Entrando nella stessa si resta subito colpiti da un particolare e
pungente mix di odori, composto da incenso, aghi di pino, cera delle
candele, aromi floreali, e probabilmente altro. Il pavimento è cosparso da
migliaia di aghi di pino, mentre le varie statue raffiguranti i santi
cattolici sono vestite con colori sgargianti e presentano dei volti molto
lucidi. Restiamo ammutoliti, mentre qualcuno recita qualche incomprensibile
omelia, offrendo bottiglie di coca cola e tequila. Uno spettacolo surreale e
sicuramente deprimente, quello dell'osservare questa gente a cui sono state
tolte con la forza le proprie credenze ed i propri riti, tanto da doverli
praticare camuffati così a lungo nel tempo, fino a perdere definitivamente
la propria identità culturale. Con un groppo in gola riprendiamo la nostra
marcia, oltrepassando delle belle colline coltivate a frutteti e mais, fino
a giungere nel vicino villaggio di Zinacantan. Qui la chiesa è chiusa, ed in
verità non so nemmeno se avrei ripetuto l'esperienza provata a San Juan
Chamula, ma ci destano comunque curiosità i caratteristici vestiti degli
uomini, costituiti da dei ponchos rossi, che ammiriamo passeggiando nella
polverosa e spoglia via che di fatto attraversa il villaggio, attorno alla
quale stanno sorgendo dei negozietti per turisti, segno che si è capito che
possono rappresentare una sicura fonte di reddito per questi poveri
diseredati, anche se questo significherà con molta probabilità la loro
omologazione e quindi la perdita definitiva di quel poco che resta della
loro cultura, un po' come accade nella pur piacevole San Cristobal, che
raggiungiamo nella metà pomeriggio. Infatti, debbo dire che fa una certa
impressione vedere alcuni di questi splendidi edifici coloniali trasformati
in dei moderni locali ad uso turistico, e soprattutto questi indios
elemosinare e vendere paccottiglia ad ogni angolo delle strade. Persino il
subcomandante Marcos, colui che dovrebbe risollevare le loro sorti, è
diventato un pupazzo di pezza da vendere ai turisti. Ma la cosa che più in
assoluto mi dispiace, è vedere queste popolazioni trattate come fenomeni da
baraccone, come delle persone diverse, il dover constatare dai commenti di
qualche turista ******, che sono addirittura in stridente contrasto con le
bellezze di San Cristobal e mi chiedo se dopo che sono riusciti a
sopravvivere in malo modo al colonialismo spagnolo, ed ai mille successivi
soprusi perpetuati loro nel tempo, riusciranno mai invece a sopravvivere
culturalmente al colonialismo turistico. Il mattino seguente usciamo presto
da San Cristobal, dirigendoci verso sudest. La nostra meta odierna è il
parco nazionale di Lagunas de Montebello, ubicato in prossimità della selva
lacandona, a ridosso del confine guatemalteco. Allontanandoci da San
Cristobal lungo la statale 190, il paesaggio cambia radicalmente, e le belle
colline ricoperte da pinete o coltivate a frutteti che circondano la
cittadina, lasciano il posto progressivamente ad una serie di pianure
intervallate da alcuni desolati rilievi, in cui si evince facilmente il
taglio indiscriminato degli alberi perpetuato negli anni. Anche la stessa
selva lacandona, una delle foreste pluviali più incontaminate del pianeta,
nella quale si annoverano moltissime specie vegetali, ed habitat naturale di
qualcosa come 23 specie di anfibi, 54 di rettili, 82 varietà di mammiferi,
oltre 340 specie di uccelli e molto altro ancora, ha rischiato, e rischia la
sua estirpazione, essendo da anni nelle mire di latifondisti ed imprenditori
senza scrupoli, a dimostrazione che il dio denaro non fa sconti a nessuno,
né ad un paradiso naturalistico unico in Messico, e né tantomeno ai suoi
antichi abitanti, i Lacandoni, tribù primitiva che si pensa discendere
direttamente dagli antichi Maya, i quali debbono molto della loro
sopravvivenza come gruppo etnico ai coniugi Blom. I Lacandoni sono sempre
vissuti isolati nella foresta, restando di fatto estranei a tutto quello che
era successo nel paese centroamericano, fino a quando vennero in contatto
con l'esterno grazie all'inizio dello sfruttamento del legname nella selva
lacandona, ovvero in quello che era il loro mondo. Con il tempo iniziarono a
lavorare per le compagnie che praticavano il deforestamento, ed a conoscere
e quindi usare il denaro. In breve questo gruppo etnico fu decimato dall'alcol,
da malattie fino a poco tempo prima sconosciute, nonché dal disboscamento
indebito e selvaggio del proprio ambiente naturale. I coniugi Blom,
appassionati da sempre di antropologia e sensibili ai problemi delle locali
etnie chiapateche, si preoccuparono di preservare e documentare le
tradizioni dei Lacandoni, la cui sopravvivenza della loro secolare cultura
era seriamente in pericolo. Gli sforzi dei Blom ottennero dei risultati
soddisfacenti, considerato che il numero stimato dei Lacandoni attorno al
1960 ammontava a circa 200 individui, mentre recentemente ne sono stati
censiti oltre quattrocento, e, sebbene abbiano comunque subito un
inevitabile processo di occidentalizzazione, sono in ogni caso sopravvissuti
come etnia. La casa dei Blom è stata trasformata nel centro istituzionale
Na-Bolom (casa del giaguaro in lingua Tzotzil), che abbiamo visitato ieri a
San Cristobal, il quale presenta alcuni reperti archeologici, oltre 50.000
foto che testimoniano la distruzione parziale della selva lacandona e riti
ancestrali non più praticati dalle comunità locali, svariati oggetti di
artigianato, una ricca biblioteca e molto altro ancora riguardo le numerose
minoranze etniche presenti in Chiapas. Inoltre, fra gli scopi principali del
centro figura il rimboschimento della zona, con l'impegno preciso di
piantare oltre trentamila alberi l'anno, ed entrando di conseguenza spesso
in conflitto con i latifondisti locali e con le industrie di legname. Franz
Blom è morto nel 1963 e la sua attività è stata continuata con successo da
sua moglie Gertrude, deceduta tre anni fa, la quale fu insignita nel 1991
del ruolo d'onore mondiale dalle nazioni unite, in virtù della sua continua
opera durata oltre cinquant'anni in difesa dell'ambiente. Se la selva
lacandona è riuscita a preservare in qualche modo il suo prezioso ecosistema
e se gli stessi lacandoni ancora esistono, lo si deve anche agli sforzi
compiuti dai coniugi Blom e fa riflettere il fatto che secondo le ricerche
effettuate dagli scienziati messicani, la selva tropicale occupava in
origine il 12% dell'intero territorio del paese latinoamericano, mentre
attualmente ricopre meno dell'1% dello stesso. Alcuni chilometri dopo aver
superato il paese di Comitàn, seguiamo il segnale che indica l'ingresso alle
Lagunas di Montebello, imboccando una stradina in salita circondata da
conifere, che in breve ci conduce alle lagunas coloradas. Il parco nazionale
è stato il primo ad essere istituito in Chiapas nel 1959, ed annovera una
sessantina di laghetti in totale. La zona in cui ci troviamo ora, quella dei
laghi colorati, è davvero suggestiva. Cinque di questi laghi sono facilmente
raggiungibili tramite la medesima strada asfaltata e nessuna fotografia
credo potrà rendere giustizia alla reale bellezza di questi posti. Siamo
circondati da uno spettacolo di rara bellezza, in cui la tipica vegetazione
tropicale è frammista a boschetti di conifere, ed assieme circondano e
contemporaneamente si specchiano in questi laghetti, i cui colori spaziano
dal verde smeraldo al turchese, creando sulla superficie dell'acqua dei
magici giochi cromatici. Tutt'intorno regna un silenzio assoluto, interrotto
unicamente dalle nostre voci meravigliate da questi paesaggi immacolati e
dai mille canti degli uccelli. Poco più in là, al di fuori delle rare piste
battute, la selva diventa il regno incontrastato di numerosi animali
selvatici, tra cui il giaguaro, o il raro uccello sacro dei maya, il
quetzal. L'ultimo lago che visitiamo è quello denominato Tziscao, il più
grande, che segna di fatto il confine con il Guatemala, dopodiché diciamo
addio a questa terra fatata, percorrendo a ritroso la medesima strada dell'andata
e fermandoci per il pranzo nella poco attraente Comitàn, prima di tornare
nel tardo pomeriggio a San Cristobal. Sembra che vicino a Comitàn esistano
tutt'ora dei campi profughi di rifugiati guatemaltechi, che in più di
quarantacinquemila superarono il confine nei primi anni ottanta, a causa
della dura repressione politica adottata dall'esercito e delle atroci
scorribande effettuate dai famigerati squadroni della morte, quasi a
testimoniare il fatto che per la gente di queste parti, parole come pace o
serenità sono dei termini puramente astratti. Ultima sera a San Cristobal de
Las Casas. Lo zòcalo è come al solito animato da stranieri di varie
nazionalità, venditori di stoffe, finta ambra e quant'altro possa far
contento qualche desideroso turista in vena di acquisti. La temperatura è
scesa di molto, tanto da indurci ad indossare i nostri giubbetti.
Passeggiamo senza una meta precisa tra le stradine lastricate di un passato
coloniale più o meno recente, semplicemente osservando tutto quello che ci
circonda, e facendoci trasportare dalla magia di questo affascinante paese,
dalla sua atmosfera, dalla sua gente, fino ad infilarci in uno dei tanti
locali dove concederci un'ultima squisita cena a base di tostadas, guacamole
e bistecca alla parrilla.. A differenza degli altri ristoranti in cui
eravamo stati le altre sere, il locale è molto animato e caratterizzato da
un andirivieni di venditori ambulanti. Ci colpisce in particolar modo un
bambino, che infreddolito e con il muco al naso, si aggira cencioso tra i
tavoli, tentando di vendere i suoi braccialetti. Avrà a malapena otto anni,
ma è determinato nel suo business, tanto che dopo un po' abbiamo due bei
braccialetti colorati ancorati ai nostri polsi, non certo preventivati, ma
acquistati per la bellezza dei suoi grandi occhioni bruni. Miguel si
sofferma un po' a parlare con noi, incuriosito più che altro dalla nostra
penna e dal taccuino sul quale la sera annotiamo qualche impressione
inerente la giornata trascorsa. Disegna qualcosa, ma lo fa con una maestria
tale che ci sorprende entrambi, riproducendo quasi fedelmente un dipinto
appeso alla parete, cosa non certo comune, specie a quella tenera età.
Confesso che restiamo interdetti, e tentando probabilmente senza riuscirci
di non cadere nella comune retorica, ci domandiamo tra noi perché un bimbo
così piccolo debba essere privato della gioia di crescere giocando, come
fanno molti altri suoi coetanei, che a questa tarda ora staranno
probabilmente vedendo la tv o divertendosi con qualche videogame, e
soprattutto ci chiediamo se riuscirà mai ad esprimere il suo straordinario
talento in questa terra di dimenticata da Dio e dagli uomini. All'improvviso
viene chiamato da altre ragazzine all'entrata del ristorante e corre come un
fulmine facendo rimbombare i passi dei suoi piedini nudi sul pavimento di
legno del locale, scomparendo nei vicoli bui della fredda notte di San
Cristobal. Conservo ancora i suoi disegni tra i miei appunti di viaggio. L'indomani
lasciamo definitivamente San Cristobal de Las Casas, cittadina che, malgrado
i suoi evidenti contrasti a cui accennavo, ci è comunque piaciuta molto, ed
in cinque ore di autobus di linea raggiungiamo nel primo pomeriggio il
desolato paesino di Palenque. Con facilità reperiamo un alloggio a buon
mercato dove stazioneremo nei prossimi giorni, e dopo una doverosa doccia,
prendiamo al volo un colectivo, che in breve tempo coprirà gli otto
chilometri che separano il paese dalle rovine maya, vero motivo che ci ha
indotti a percorrere tanta strada, per giungere fin qui. Nell'ultimo anno,
ad eccezione di Copàn in Honduras, abbiamo visitato quasi tutti i più
celebri siti maya, eppure, dopo aver varcato l'ingresso delle rovine
archeologiche di Palenque, ed aver percorso poche decine di metri, restiamo
attoniti ed ammutoliti dinnanzi alla maestosità del "Tempio delle
Iscrizioni", che troviamo sulla nostra destra, e del "Palazzo", il quale si
erge imponente di fronte a noi. L'ubicazione di Palenque è a dir poco
sensazionale. L'intero complesso si sviluppa su una superficie enorme,
tuttavia, grazie al disboscamento praticato unicamente attorno alle
principali rovine, sono accessibili facilmente solo le aeree centrali dove
ci troviamo ora, le quali occupano una minima parte dell'intera zona in cui
si estende il sito, mentre tutto il resto è coperto da una fittissima ed
impenetrabile vegetazione tropicale, in attesa che in futuro, i fondi
economici saranno sufficienti per permettere agli archeologi chissà quante
altre sensazionali scoperte. Poco dopo le quindici, ci accingiamo a salire
il primo dei 69 gradini che compongono la scalinata centrale del Tempio
delle Iscrizioni, il quale si eleva di circa 23 metri dal suolo. La fatica
dovuta all'ascesa, complice senza dubbio il notevole tasso di umidità
presente, è ripagata dalla sublime visuale che godiamo dalla sommità di
questa piramide, la quale ci offre tra l'altro una spettacolare vista sul
sottostante "Palazzo", complesso monumentale di notevole bellezza e frutto
di almeno un paio di secoli di complesse attività architettoniche. Il tempio
su cui ci troviamo, deve il proprio nome al ritrovamento sulla sua sommità
di tre serie di iscrizioni, ognuna delle quali è costituita da lastre
finemente incise da glifi. Ma la più grande scoperta effettuata a Palenque,
fu senza dubbio quella della cripta sotterranea presente nello stesso tempio
e, mentre scendiamo lentamente i 67 ripidi scalini che conducono alla
stessa, soffocando letteralmente dal caldo e grondando di sudore, proviamo
ad immaginare cosa possa aver provato nel 1959 l'archeologo messicano
Alberto Ruz Lhuillier, quando scoprì la scala che stiamo discendendo, allora
sepolta da pietrisco, ed ai piedi della quale c'era un passaggio sbarrato.
Gli archeologi lavorarono ben tre anni in quello stesso passaggio, fino a
quando poterono entrare nella camera sepolcrale di Pakal, re che governò per
una settantina d'anni, portando la città di Palenque ai suoi massimi fasti.
Il corpo del sovrano era coperto da un lastrone finemente scolpito pesante
ben cinque tonnellate, che richiese una settimana di duro lavoro per
riuscire a sollevarlo, prima di trovare le spoglie del leggendario re,
assieme al suo prezioso corredo funerario, costituito da un pregevole
diadema e da una sublime maschera di giada a mosaico, che abbiamo potuto
ammirare qualche settimana fa nel museo di antropologia di Città del
Messico. La scoperta di Lhuillier fu sensazionale a livello archeologico,
perché permise di sfatare la credenza secondo cui le piramidi maya
servissero unicamente a scopi cerimoniali, mentre la cripta di Pakal ha
permesso di conoscerle anche in veste di camere sepolcrali. Visitata la
cripta, chiusa da un cancello di ferro, ed illuminata appositamente da un
faro, facciamo un piccolo giro orientativo tra le rovine, perché si sta
avvicinando l'orario di chiusura del sito, a cui dedicheremo l'intera
giornata di domani, come del resto merita. Il giorno seguente infatti, alle
otto in punto, entriamo nuovamente in questa antica città maya, visitando
con la dovuta calma le sue tante costruzioni. Prima tra tutte il "Palazzo",
labirinto di stanze e corridoi, elevato su una piattaforma di dieci metri di
altezza, e di quasi cento di lunghezza, nel quale sono presenti pregevoli
figure in stucco e varie iscrizioni, e dove spicca la sua torre a quattro
piani, la quale si pensa servisse come osservatorio ai sapienti astronomi
maya. Poi è la volta dei templi del cosiddetto "gruppo della croce" e di
altre costruzioni minori che si snodano nell'area del sito, tutte
altrettanto suggestive, degne di nota, ed attorno alle quali non c'è però
anima viva, ma forse il bello della visita che stiamo compiendo è proprio
questo, ovvero poter contemplare in perfetta solitudine queste autentiche
meraviglie architettoniche, edificate secoli fa da uno dei più affascinanti
popoli di tutti tempi. Così, ci spostiamo tra le rovine più isolate, vivendo
un'esperienza da novelli indiana jones, ed addentrandoci quindi anche nella
circostante foresta che lambisce l'area principale del complesso
archeologico, dove dietro ogni albero si nasconde una fatiscente
costruzione, senza dubbio meritevole di restauro, dove la vegetazione
diventa a tratti così fitta da impedire ai raggi del sole di filtrare, dove
le scimmie urlatrici, autentiche protagoniste di questa selva tropicale,
sembrano divertirsi a dettare la colonna sonora in questa suggestiva parte
di mondo, che stiamo intensamente assaporando. Proviamo a risalire il corso
del Rio Otolum, poco più che un torrente in piena, il quale forma però
spesso all'interno della foresta delle affascinanti cascatelle, che sembrano
non stonare affatto in questo attraente contesto in cui ci troviamo,
costituito da una fittissima vegetazione tropicale che ricopre quasi
inghiottendo alcune piccole misteriose rovine, scale in pietra che emergono
come per incanto dal suolo fangoso, mille versi misteriosi, appartenenti ad
animali più o meno conosciuti. Anche questo è Palenque, senza dubbio una
delle città maya tra le più affascinanti, tra quelle visitate. Dopo aver
trascorso l'intera giornata tra le rovine, poco dopo le diciassette torniamo
in paese, fermandoci presso un'agenzia locale, al fine di acquistare i
biglietti per il trasporto alle cascate di Misol-ha ed Agua Azul, che
vorremmo visitare domani. All'interno però, ci si profila l'opportunità di
visitare un altro sito maya, Bonampak, ubicato in piena selva lacandona. Due
anziani turisti tedeschi vorrebbero recarvisi domani mattina, ma la spesa è
alta, ed il proprietario dell'agenzia ci propone di dividerla con loro: 80
dollari usa a testa, per volare su un aereo a quattro posti alla volta di
questa città isolata nella giungla e tornare in giornata a Palenque. Ci
consultiamo rapidamente, abbiamo ancora diversi giorni di viaggio davanti a
noi e come sempre abbiamo già sforato il budget, ma l'opportunità è
allettante, ed in fondo, anche se costosa, non ci ridurrà certo sul
lastrico. Accettiamo, domani effettueremo questa visita non preventivata, ma
di sicuro fascino, allungando quindi di un giorno in più il nostro soggiorno
nel Chiapas. Il giorno seguente, nel primo pomeriggio, eccoci quindi a bordo
di questo piccolo velivolo in compagnia dei due tedeschi. I due anziani
coniugi sono simpatici e ci raccontano della propria passione per le civiltà
mesoamericane. In poco più di mezz'ora copriamo i quasi 180 chilometri che
separano Bonampak da Palenque, ammirando dall'alto un monotono panorama
costituito da una fittissima selva. Il piccolo giocattolo alato vira sopra
alcune rovine, Yaxchilan a quanto ci dicono, peccato davvero non poterle
annoverare nella visita odierna, ma l'accoppiata costava veramente troppo,
malgrado la notevole vicinanza tra i due siti. In breve atterriamo nella
foresta, quasi radendo le cime degli alberi. Durante il lungo tragitto che
si snoda dall'ingresso fino alle rovine, dobbiamo ricorrere immediatamente a
massicce spruzzate di Autan, per impedire alle fameliche zanzare che
sembrano proliferare da queste parti, di ridurci la pelle a qualcosa che
somigli ad un colabrodo. Il sito di Bonampak non colpisce certo per la
maestosità dei suoi monumenti. Si sviluppa attorno ad una circoscritta area
disboscata dalla forma rettangolare, chiamata "Grande Piazza", i cui lati,
contornati da nove spogli edifici, misureranno nemmeno un centinaio di
metri. Sulla parte nord della Grande Piazza spicca una collinetta (acropoli)
terrazzata, sulla quale ci sono alcuni piccoli templi, tra l'altro
abbastanza fatiscenti. Andando verso l'acropoli, s'incontrano tre stele,
nella prima delle quali, alta quasi sei metri, è raffigurato Chan Muan II,
il sovrano di Bonampak, mentre nelle altre due sono incise scene più
cruente, con lo stesso sovrano che esibisce una testa tagliata e dei
prigionieri di guerra. Ad esser sinceri, a parte l'affascinante contesto in
cui sorge, il sito non è architettonicamente un granché, niente quindi a che
vedere con gli altri che abbiamo visitato tra Messico e Guatemala, ma
riveste un ruolo di primaria importanza nell'archeologia maya, a causa delle
pitture contenute in un piccolo tempio sulla destra dell'acropoli, che ci
accingiamo a visitare. Sembra che Bonampak debba la sua scoperta ad un
obiettore di conoscenza statunitense, il quale si rifugiò nel 1946 in un
piccolo villaggio del Chiapas e strinse amicizia con un giovane lacandone,
divenendo in breve un membro della comunità stessa, composta da poco più di
duecento individui. Frey, questo è il nome del giovane yankee, venne quindi
in seguito a conoscenza di questo antichissimo centro cerimoniale sepolto
nella giungla, dove fu condotto dagli stessi lacandoni. Il giovane avvertì
le autorità messicane dell'importante ritrovamento, ma non ottenne grandi
consensi, probabilmente a causa dell'inaccessibilità del luogo, tanto da
organizzare personalmente nel 1949 una spedizione sponsorizzata dall'Istituto
Nazionale Messicano delle Belle Arti. Charles Frey stesso, perse però la
vita nella medesima spedizione, annegando nelle impetuose acque del rio
Lacanha, ma la città di Bonampak aprì le proprie porte al mondo dell'archeologia.
Sulla prima terrazza dell'acropoli, visitiamo quindi il piccolo "Tempio
delle pitture", a cui il sito deve la propria fama. Nelle tre stanze
interne, non comunicanti tra loro, ci sono una serie infinita di affreschi
policromi, che raffigurano i momenti salienti della vita del regno, come l'incoronazione
del sovrano, scene di una violenta battaglia e la celebrazione della
vittoria, con dipinti cruenti di sacrifici dei prigionieri, a cui viene
strappato il cuore per offrirlo alle divinità, e di autosacrifici, in cui il
re e la sua corte, si fanno passare una cordicella attraverso la lingua.
Bonampak segnò una svolta determinante nello studio dei maya, poiché le
pitture presenti nelle tre stanze, hanno fatto definitivamente cadere l'ipotesi
che gli stessi fossero un popolo pacifico. Purtroppo i colori sono assai
sbiaditi, considerato che fu fatto dagli archeologi l'errore imperdonabile
di lavare le pareti con il kerosene, dopo aver grattato il calcare
depositatosi sugli affreschi nel corso degli anni. Il kerosene sbiadì
notevolmente gli affreschi, ed accelerò il deterioramento delle mura del
tempio. Trascorriamo diverso tempo contemplando queste pitture, ed in un
paio d'ore complessive visitiamo l'intero sito, concordando comunque sul
fatto che è valsa la pena visitarlo. Atterriamo a Palenque nel tardo
pomeriggio, soddisfatti di quest'altra giornata trascorsa nelle magie di
questo bellissimo stato messicano. Il giorno dopo partiamo alla volta delle
cascate di Misol-ha ed Agua Azul, come da nostri programmi iniziali.
Effettuiamo la visita a bordo di un colectivo, che ci consente di effettuare
l'escursione in piena autonomia, pagando solo il trasporto. Visitiamo
dapprima le cascate di Misol-ha, dove ci fermiamo però brevemente, meno di
un'ora, ammirando il bel salto d'acqua di oltre 30 metri, ed il laghetto
sottostante, ubicati in un contesto naturalistico di rara bellezza. Ci
spostiamo successivamente ad Agua Azul, dove in pratica stiamo gran parte
della giornata. Il posto è altamente spettacolare e comprende oltre 500
impetuose cascate di varie dimensioni, che si susseguono lungo la discesa
del rio Yax Ha, il quale scorre interamente circondato da una lussureggiante
vegetazione tropicale. Decidiamo di risalire il corso del fiume, effettuando
una piacevole passeggiata sulla sua sponda sinistra, ed osservando con
meraviglia un paesaggio che alterna delle zone erbose a dei piccoli campi
coltivati, intervallati da tratti in cui la foresta pluviale prende il
sopravvento, con i mille rumori di sottofondo che la contraddistinguono,
mischiati al fragore delle impetuose acque. Man mano che ci allontaniamo, i
turisti si dilatano, fino a rimanere praticamente soli in questo piccolo
trionfo della natura. Lungo il percorso, incontriamo saltuariamente delle
spoglie capanne, e qualche bambino che scende a vendere frutta o piccoli
oggetti di artigianato. Un piccolo gruppetto ci chiede con fare aggressivo
dei "cicle", e non ricevendo risposta positiva da parte nostra, inizia a
tirarci delle pietre, ed a gridarci delle parole davvero incomprensibili.
Hanno ragione anche loro. Dopo aver camminato per almeno un paio d'ore, ci
accampiamo in una piccola radura, dove il fiume scorre placidamente e nel
quale il silenzio è rotto unicamente dal cinguettio di mille invisibili
uccelli. Momenti magici. Vorrei rimanere qui in eterno, lontano da tutto e
tutti. Peccato solo che, a causa delle abbondanti piogge che cadono in
questa stagione, le acque, anziché essere azzurrognole, come dal nome stesso
delle cascate, siano di un colore simile ad un caffellatte. Già, le piogge
di stagione, decidono di ricordarsi anche di noi e della nostra fortuna, che
ci assistito finora. Giù quindi una sorta di diluvio universale, che non ci
lascia scampo. Via con una folle corsa in discesa, fermandoci ogni tanto
sotto qualche albero, o in prossimità di un capanno, sperando che possa
cessare. Il cielo però è di un cupo che non lascia dubbi e via dunque, di
nuovo a correre, bagnandoci come pulcini, malgrado la protezione dei keyway.
Piede del sottoscritto in fuorigioco e scivolone di almeno tre metri lungo
la fanghiglia, con relative risate di entrambi, sotto dei gettiti d'acqua
degni delle cascate in cui ci troviamo. Torniamo nel tardo pomeriggio al
paesino di Palenque. Ultima mediocre cena, qui abbiamo sempre mangiato male,
cosa strana per noi in Messico. Domani, in un paio d'ore di autobus
raggiungeremo Villahermosa, da cui poi ci sposteremo nello Yucatan e
Quintana Roo per qualche giorno di mare, a degna conclusione di questo lungo
viaggio. Questa settimana dedicata al Chiapas è trascorsa velocemente,
troppo, tanto che lasciamo questo stato sentendo che qualcosa ci manca e
provando uno spiacevole senso d'incompletezza, misto al normale rammarico.
Spero davvero che la sua gente possa avere miglior sorte in futuro, che
possa alzare la testa dopo secoli di soprusi ed oppressioni, anche se in
cuor mio so che è una speranza vana, purtroppo utopica. Ce ne andiamo
davvero a malincuore. Questa terra ci rimarrà dentro lo so, spero un giorno
di tornarci, di poter passeggiare ancora tra le lastricate stradine
coloniali dei suoi paesi, di visitare i villaggi della sua gente, di
perdermi nella sua inebriante natura, di ammirare, ancora una volta, i mille
colori del Chiapas.



Bnx








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>>"Bnx" <contact@bnx.it> ha scritto nel messaggio
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> l'occasione un vecchio racconto datato 1996[/color]

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